“In ogni fiaba c’è il bene e il male. Quello che mi è sempre piaciuto del Sottomondo è che tutto è vagamente ‘spostato’, anche le brave persone. Questo, per me, fa la differenza.”
Con queste parole cariche di entusiasmo Tim Burton, uno dei registi più geniali ed espressivi della sua generazione, ha accolto l’idea di realizzare una trasposizione filmica di uno dei più grandi classici della letteratura per l’infanzia, Alice nel paese delle meraviglie.
Alice in Wonderland è, difatti, uno dei racconti fiabeschi più universalmente popolari, infrangendo qualunque barriera geografica, demografica e culturale.
Chi, meglio di Tim Burton, poteva ri-tuffarsi in questo bizzarro “sottomondo”? Chi se non lui, che ha fatto delle sue atmosfere oniriche un’importante marchio di fabbrica, poteva scivolare assieme ad Alice in quella portentosa tana che porta dritta dritta nel Paese delle meraviglie?
Il film, un concentrato ispirato a entrambi i libri di Carroll su Alice, si apre nella Londra dell’Ottocento dove la nostra eroina fugge dalla “mostruosità” della borghesia che la vuole fare prigioniera attraverso una proposta di matrimonio. La ragazza deciderà invece di inseguire il Bianconiglio, finendo per cadere nella tana che la condurrà a Wonderland. A quel punto Burton alza il sipario sugli elementi fantastici e il film diventa un mix di performance capture e live action.
Alice teme di essere pazza. Da quando è piccola continua a fare sempre lo stesso sogno, non sta mai attenta quando le parlano, è diversa dal resto della buona società che frequenta e non si integra nelle regole del suo mondo. Affinché non rimanga zitella come la zia, che senza marito pazza lo è diventata sul serio, i parenti le combinano il matrimonio con un ottimo partito: un giovanotto integrato, conformato, di nobile lignaggio e con qualche problema digestivo. Al grande ricevimento nel quale le verrà fatta la proposta però le visioni di Alice si fanno insistenti, il ticchettio di un orologio sembra ossessionarla e sul più bello vede comparire un coniglio in doppiopetto che le indica che è oramai tardi. Alice lo segue nella sua tana e finisce in quel mondo che aveva sognato fin da piccola, dove scopre che esiste una profezia riguardo una sua omonima la quale, con l’aiuto del Cappellaio Matto, del Coniglio Marzolino ecc. ecc. sconfiggerà una creatura malvagia liberando il regno dalla tirannia della Regina Rossa e riportando al trono la sorella più bella, la Regina Bianca.
La produzione è sempre Disney ma siamo totalmente da un’altra parte rispetto al cartone animato del 1951. Benché la storia ancora una volta mescoli elementi da i due libri di Lewis Carrol: “Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie” e “Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò”, il mix è inedito. Questa volta l’andamento psichedelicamente caotico per il quale solo perdendosi completamente Alice riusciva a trarre qualcosa dal suo peregrinare è scartato a favore di una trama decisamente più canonica. Arrivata nel paese delle meraviglie Alice ha un destino già scritto, ha una missione e un nemico da sconfiggere.
Dunque non solo non siamo dalle parti dei testi originali ma non siamo nemmeno dalle parti dei film di Tim Burton, nei quali solitamente il protagonista è un outsider che trova in un luogo oscuro e apparentemente ostile il suo vero habitat perché più sincero ed autentico dei conformismi borghesi cui era abituato. Alice si trova male nel mondo reale perché è diversa mentre nel mondo delle meraviglie lotterà per riportare lo status quo, per normalizzare quel luogo dalla tirannia folle della Regina Rossa. Peccato che proprio la Regina Rossa sia la vera outsider: sorella maggiore brutta e dalla testa troppo grande che è sempre stata all’ombra della sorella minore, tanto carina e amabile quanto cretina e impalpabile, e che non riuscendo a farsi amare preferisce essere odiata. La parte nel paese delle meraviglie è un percorso verso il conformismo di un personaggio ritenuto matto che, come in un film fantasy, subisce una profezia che si deve avverare, ha un’armatura, una spada, nemici mitologici e via dicendo.E a poco purtroppo servono le molte interessanti intuizioni visive, le mille piccole raffinatezze di scenografia (praticamente tutta in computer grafica), di costumi e di trucco di fronte ad una parabola disneiana nel senso più deteriore del termine, per la quale l’eroina del caso trova la strada che era stata decisa per lei invece di forgiarne una con le proprie mani o secondo i propri gusti.